Il ritorno del Latino/ Latin revival
Ogni volta che si parla di Latino a scuola, anche solo come opzione, si accende un dibattito vivace in cui però raramente sentiamo la voce di chi la materia la vive da una vita. Al suo posto, trovano spazio opinioni e pregiudizi che poco hanno a che fare con la realtà educativa.
Ecco perché ho scelto di condividere una lettera
scritta da un docente universitario di Lettere: una riflessione lucida,
documentata e lontana da ogni ideologia, che aiuta a capire cosa davvero
significhi studiare il latino oggi.
La lettera è stata inviata alla redazione di Orizzonte scuola- orizzontescuola.it -da Marco Ricucci, docente di Italiano e Latino presso la Scuola militare “Teuliè” di Milano e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano.
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Gentile
Redazione,
scrivo
questa lettera perché, da ex
docente di lettere – dieci anni di precariato abilitato, con estati non
retribuite e classi sempre diverse, per essere concreto – non posso fare finta
di nulla davanti al fatto compiuto di introdurre il latino come disciplina
opzionale nella scuola secondaria di primo grado.
Ho letto con
estrema attenzione il punto 7.7 del Parere del Consiglio di Stato, emanato
qualche giorno, per dare via libera alla nuova versione delle Indicazioni
nazionali del primo ciclo, riviste dopo una prima “bocciatura”. È stato proprio quel Parere a segnalare come la
precedente bozza ministeriale fosse costellata di improprietà linguistiche,
refusi e passaggi poco chiari: un dettaglio non marginale, quando si parla di
educazione linguistica, in un testo-guida o “manuale” ad uso dei docenti per l’istruzione,
la formazione e l’educazione delle future generazioni.
In quel
passaggio del Parere – confermato anche nella versione approvata – viene
sottolineato come, nelle Indicazioni, il latino venga presentato come una sorta
di strumento metacognitivo valido per tutti, capace di rafforzare la
consapevolezza linguistica persino negli studenti non italofoni. Il Parere,
inoltre, prende atto che la disciplina potrà essere attivata “in regime di facoltatività”, e che
la sua implementazione dipenderà dalle scelte organizzative delle singole
istituzioni scolastiche.
Devo essere
franco: tutto ciò non trova riscontro nella ricerca scientifica, poiché per anni mi sono occupato di didattica della
lingua latina. Non esiste infatti alcuna evidenza sistematica che dimostri
un nesso diretto tra l’apprendimento
precoce del latino e un miglioramento delle competenze linguistiche generali. Le
osservazioni positive che talvolta vengono citate sono empiriche, locali, non
replicabili. La “ginnastica
mentale” del latino appartiene più a una amata favola della storia della scuola
italiana piuttosto che alla pedagogia contemporanea.
Intanto, però,
la situazione dei nostri studenti è quella che – noi docenti- conosciamo tutti:
le rilevazioni INVALSI, insieme ai principali test internazionali, mostrano un
deterioramento preoccupante della comprensione del testo, della scrittura,
della capacità di seguire un ragionamento lineare nella lingua italiana.
Quotidianamente, in classe, incontriamo ragazzi che faticano con la sintassi di
un articolo di giornale, non sanno ricavare il senso di un periodo complesso, e
hanno difficoltà a strutturare un pensiero personale, nella lingua italiana.
Se questo è il
contesto reale, mi chiedo come si possa ritenere prioritario introdurre una
nuova disciplina, opzionale e aggiuntiva, mentre non è stata ancora
ripristinata l’ora di italiano tagliata nel 2008,
con l’eliminazione delle compresenze che
tanto erano utili a far fronte alle sfide didattiche ed educative nella scuola
media. Un’ora sottratta alla disciplina che,
oggi più che mai, dovrebbe essere il cuore della formazione linguistica e dell’inclusione. Troviamo però un’ora per il
latino e, soprattutto, i soldi!
Il Parere,
inoltre, fa notare una criticità difficilmente aggirabile per chi abbia una
briciola di onestà intellettuale: presentare il latino come un’opportunità “per tutti”, ma rendendolo nello
stesso tempo facoltativo, implica un sistema scolastico a più velocità. Una
contraddizione concettuale del tutto palese. Ci saranno
scuole che lo proporranno e scuole che non potranno farlo; istituti con docenti
già competenti e altri costretti a muoversi alla cieca; famiglie che
sceglieranno di aderire e famiglie che, per ragioni culturali o economiche, non
lo faranno.
E non possiamo ignorare il problema più concreto: non esiste personale specializzato in quantità sufficiente. Le scuole non hanno organici formati per un insegnamento di latino pensato specificamente per la scuola media. I futuri percorsi abilitanti, previsti sulla carta, richiederanno anni, risorse e scelte organizzative complesse. Nel frattempo, chi verrebbe messo in classe? Si prepara già un florido mercato di CFU - Credito Formativo Universitario - gestito dal mondo accademico dietro pagamento da parte di aspiranti docenti e precari storico, al fine di conseguire una nuova classe di abilitazione .
A tutto questo si aggiunge l’argomentazione – sinceramente sconcertante – secondo cui il latino aiuterebbe gli studenti “a comprendere la Cina”. L’ho letta in un intervento pubblico del Prof. Andrea Balbo, ordinario all’Università di Torino e coordinatore della sottocommissione che ha redatto la proposta ministeriale, come risposta a un mio articolo sul “Corriere” online.
Mi permetto
di dirlo con rispetto ma con chiarezza: evocare i gesuiti del Seicento o la
tradizione delle traduzioni latine come ponte per capire la cultura cinese
contemporanea è un’operazione
brillante sul piano retorico, ma scollegata dalla realtà delle nostre classi,
soprattutto se ci sono tredicenni di ora! I nostri ragazzi hanno bisogno di
strumenti per leggere il presente, non di voli culturali -dal sapore pindarico-
che scavalcano difficoltà linguistiche basilari.
Per tutto questo, ritengo che la riforma non nasca da esigenze pedagogiche, né da richieste delle scuole che siano attente ai bisogni formativi di classi multiculturali e multilinguistici, in un Paese, come il nostro, afflitto da anni di denatalità. È una scelta ideologica, che punta a riaffermare una certa visione culturale – legittima, certo – ma che rischia di sovrapporsi alle urgenze vere della scuola italiana. Il latino resta un patrimonio importante, ma non può essere proposto come risposta magica ai problemi linguistici del Paese.
La scuola media ha bisogno, prima di tutto, di rafforzare l’italiano, di lavorare sulla comprensione, sulla scrittura, sull’argomentazione. Solo così la lingua può diventare davvero uno strumento di cittadinanza e di inclusione. Se il latino dovrà tornare, torni pure. Ma non così. Non ora. Non con queste premesse. Mi auguro che questa mia lettera pubblica e aperta possa suscitare una riflessione costruttiva non solo nei docenti di lettere alle medie.
Così si conclude la lettera del professor Marco Ricucci.
Ci auguriamo che anche questo post contribuisca a diffondere idee così chiaramente espresse e supportate da esperienze e fatti concreti. Il dibattito resta aperto anche qui sul blog: potete intervenire in italiano o in inglese. Grazie per la vostra collaborazione e per il contributo alla discussione.
Whenever the topic of Latin in schools comes up — even just as an optional subject — a lively debate immediately ignites. Yet the voices we most rarely hear are those of the people who have lived and taught this subject for a lifetime. In their place, we often find opinions and prejudices that have little to do with actual educational practice.
This is why I chose to share a letter written by a university scholar of Classics: a clear, well-documented, and non-ideological reflection that helps us understand what studying Latin truly means today.
The letter was sent to the editorial staff of Orizzonte Scuola (orizzontescuola.it) by Marco Ricucci, teacher of Italian and Latin at the “Teulié” Military School in Milan and adjunct professor at the University of Milan.
Dear Editorial Board,
I am writing this letter because, as a former teacher of Italian and Latin—ten years as a qualified but precariously employed instructor, with unpaid summers and constantly changing classes, to be precise—I cannot pretend not to see the implications of introducing Latin as an optional subject in lower secondary school.
I have read point 7.7 of the recent opinion issued by the Council of State with great attention. The opinion was necessary to approve the revised version of the new National Guidelines for the first cycle, after an initial “rejection.” It was this very opinion that pointed out how the previous draft was riddled with linguistic inaccuracies, typos, and unclear passages—no minor detail when dealing with language education in a guideline or “manual” meant for teachers responsible for the instruction and formation of future generations.
In that section of the opinion—confirmed also in the approved version—it is highlighted that the Guidelines present Latin as a sort of metacognitive tool useful for all students, supposedly able to strengthen linguistic awareness even among non-Italian-speaking learners. The opinion also acknowledges that the subject may be activated “on an optional basis,” depending on each school’s organizational choices.
To be frank: none of this is supported by scientific research. I have spent years working on Latin language pedagogy, and there is no systematic evidence showing a direct link between early exposure to Latin and the improvement of general linguistic competence. The positive observations occasionally cited are anecdotal, local, and non-replicable. The supposed “mental gymnastics” of Latin belongs more to a beloved myth of the Italian school tradition than to contemporary pedagogy.
Meanwhile, the situation of our students is what all teachers already know: INVALSI assessments, along with major international tests, show a worrying decline in reading comprehension, writing skills, and the ability to follow a linear line of reasoning in Italian. Every day in class, we meet students who struggle with the syntax of a simple newspaper article, who cannot grasp the meaning of a complex sentence, and who have difficulty expressing a coherent personal thought in Italian.
If this is the real context, I wonder how introducing a new, optional, additional subject can be considered a priority, especially when the hour of Italian that was cut in 2008 has still not been restored—along with the co-teaching arrangements that were so useful in facing the educational challenges of middle school. That hour was removed from the very subject which should be, now more than ever, the heart of linguistic formation and inclusion. And yet we find an hour for Latin—and, above all, the funding for it!
The opinion also highlights a conceptual inconsistency that is hard to ignore for anyone with intellectual honesty: presenting Latin as an opportunity “for everyone,” while simultaneously making it optional, inevitably produces a multi-speed school system. A clear contradiction. Some schools will offer it; others will not. Some institutions already have qualified teachers; others will be left to improvise. Some families will choose it; others, due to cultural or economic reasons, will not.
And we cannot overlook the most concrete issue: there is not enough specialized staff. Schools do not have teaching personnel prepared for a Latin curriculum specifically designed for lower secondary students. The future qualification pathways, still theoretical, will require years, resources, and complex organizational measures. In the meantime, who would be placed in the classroom? A flourishing market of university-level course credits (CFU) is already taking shape, at the expense of aspiring teachers and long-time precarious workers, simply to obtain a new teaching qualification.
To all this we must add an argument—frankly astonishing—according to which Latin would help students “understand China.” I read this claim in a public statement by Professor Andrea Balbo, full professor at the University of Turin and coordinator of the subcommittee that drafted the ministerial proposal, written in response to an article of mine on the Corriere website.
Allow me to say, with respect but clarity: invoking seventeenth-century Jesuits or the tradition of Latin translations as a key to understanding contemporary Chinese culture may be rhetorically brilliant, but it is completely disconnected from the reality of today’s classrooms—especially classrooms full of thirteen-year-olds.
Our students need tools to read the present, not cultural flights of fancy—with a distinct Pindaric flavour—that leap over their most basic linguistic difficulties.
For all these reasons, I believe that this reform does not arise from pedagogical needs or from requests by schools attentive to the educational needs of multicultural and multilingual classes in a country facing a severe demographic decline. It is an ideological choice, aiming to reaffirm a certain cultural vision—legitimate, certainly—but one that risks overshadowing the real and urgent needs of Italian schools.
Latin remains an important cultural heritage, but it cannot be proposed as a magical solution to the country’s linguistic problems.
Lower secondary school needs, above all, to strengthen Italian, to work on comprehension, writing, and argumentation. Only then can language truly become a tool for citizenship and inclusion. If Latin must return, let it return. But not like this. Not now. Not on these premises. I hope this public and open letter will encourage constructive reflection not only among middle school Italian and Latin teachers.
This is how Professor Marco Ricucci’s letter ends. We hope that this post will also help spread ideas expressed with such clarity and supported by concrete experiences and evidence.
The debate remains open here on the blog: feel free to join the conversation in either Italian or English. Thank you for your collaboration and for contributing to the discussion.


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